Agricoltura nelle aree interne, impresa sempre più ardua

Fra burocrazia, costi certi e sempre più elevati, selvatici e mancanza di reddito stanno scomparendo attività storiche

Cia – Agricoltori Italiani da sempre sostiene la necessità di mantenere vive le attività del comparto agricolo nelle aree interne collinari e montane, per supportarne l’economia, conservare i servizi, contrastare lo spopolamento e contribuire alla tutela del territorio.

Si tratta di territori fragili con svantaggi di natura geografica o demografica, distanti dai servizi essenziali e troppo spesso abbandonati a loro stessi pur essendo ricchi di importanti risorse ambientali e culturali. Fonti ministeriali ci dicono che coprono complessivamente il 60% dell’intera superficie del territorio nazionale, il 52% dei Comuni ed il 22% della popolazione.

Una delle prime necessità di queste zone è quella di potervi ancora abitare e lavorare, oppure tornare, anche a lavorare. La situazione però sembra complicarsi sempre di più. Le istituzioni interessate alla promozione, alla tutela della ricchezza del territorio e delle comunità locali, alla creazione di opportunità occupazionali – almeno per quanto riguarda l’agricoltura – sembrano andare in un’altra direzione. Leggi e burocrazia sembrano fatte per ostacolare il lavoro più che per sostenerlo e contenere quindi lo spopolamento. “In cinque anni la burocrazia è quintuplicata:  richiedeva un paio d’ore a settimana, ora servono due giorni sottraendo tempo alle operazioni nei campi o nelle stalle che vanno fatte quando serve, non se e quando si può. Le piccole aziende o verranno inglobate dalle grandi o chiuderanno”, afferma Matteo Cesarini, presidente del consiglio territoriale di Cia Novafeltria.

Per chi potrebbe suggerire l’assunzione di operai la risposta è che “i conti” non tornano. A problemi si aggiungono problemi, fino a uno degli ultimi, che si verifica da un paio d’anni e ora è peggiorato: le aziende non riescono a vendere nemmeno un cereale. A fronte delle continue notizie che passano nei mass media sulla carenza di grano, Matteo Cesarini, e come lui altri, il grano ce l’ha, ma non lo compra nessuno. “Siamo passati da venderlo a costi molto inferiori a quelli di produzione che si aggirano intorno a 36 euro al kg, a non riuscire a venderlo. Ho 400 quintali di grano tenero biologico in casa. I media dicono che il grano manca. Le industrie nemmeno rispondono alle nostre proposte di vendita”.

C’è disorientamento. Le parole di Cesarini – 37enne che da sempre lavora nell’azienda familiare a Pennabilli, alla quarta generazione, e da circa 15 ne è titolare e la conduce con il padre e lo zio – trasmettono scoramento: quello di chi in questi luoghi ha investito tutto per il proprio progetto di vita e di lavoro in agricoltura e ora, fra le difficoltà a vendere il prodotto, le spese (che aumentano), il peso della burocrazia, le frane, i selvatici, non sa più cosa inventare. La soluzione arriverà da sola, sostiene Matteo Cesarini, in maniera tanto cruda quanto efficace: “Faccio un esempio: servirebbero piccoli invasi per chi ha le stalle, ma in questa zona si risolverà da sola la questione dell’approvvigionamento idrico, perché di stalle ne saranno rimaste una decina, vanno scomparendo e così sparirà anche il problema”.

Le aziende agricole in Valmarecchia, come in tutta la collina romagnola, stanno chiudendo. Il problema non è solo degli agricoltori. “L’attività produttiva agricola viene considerata frequentemente in una prospettiva negativaafferma Danilo Misirocchi, presidente di Cia Romagnafatta male a prescindere. Siccome non è così, anzi è un’opportunità economica e di tutela del territorio, occorre uno sforzo culturale di sistema per andare oltre i preconcetti e per creare veramente quelle opportunità di vita e di sviluppo così necessarie per tutti”.

WhatsApp chat
%d